martedì 16 aprile 2013

E TU...CHE GENITORE SEI?



Lo stile educativo che i genitori adottano nei confronti dei figli influisce fortemente sul loro sviluppo sociale, emotivo e intellettivo. Molto poi contano anche le caratteristiche comportamentali della prole. Anche i figli hanno le loro reazioni, i loro temperamenti, i loro atteggiamenti che portano il figlio a sottrarsi ai genitori o spingono questi ultimi a modificare il loro stile educativo.

Quali sono i principali stili educativi?

STILE AUTORITARIO: si tratta di genitori severi che stabiliscono regole senza dare troppe spiegazioni e quasi mai tengono presente le opinioni dei figli. Nella gestione della loro genitorialità sono molto  numerosi i “no” che vengono dispensati  e spesso le punizioni sono severe. Parecchie volte questi genitori usano castighi, intimidazioni come strumenti di controllo e la disobbedienza viene vista come una minaccia all’autorità. Sono genitori che si aspettano che i figli obbediscano senza discutere minimamente con loro. I figli crescono così in un clima abbastanza freddo e possono sviluppare due modalità comportamentali: ribellione oppure adeguamento diligente alle aspettative di mamma e papà. 

STILE PERMISSIVO: si tratta di genitori che non danno particolare importanza alle regole, cedono facilmente alle richieste dei figli mancando spesso nella loro posizione di guida. Quando cercano di farlo appaiono troppo deboli per farsi ascoltare. I figli quindi crescono senza un orientamento o una guida forte e ciò li spinge a realizzare all’esterno quel bisogno di coerenza che in famiglia non trovano. Il rischio maggiore dello stile permissivo è quello di sfociare nella trascuratezza.

STILE IPERPROTETTIVO: si tratta di genitori coerenti, affettivamente vicini ai loro figli, però particolarmente ansiosi che possono col tempo trasmettere insicurezza. Questi genitori sono consapevoli dell’importanza dell’educazione e sono capaci di stabilire dei legami forti , ma allo stesso tempo sono preoccupati che potrebbe accadere qualcosa di brutto ai loro figli in loro assenza. I figli, in questo modo,  non imparano a orientarsi da soli, a organizzarsi, a crescere sicuri e fiduciosi perché non è mai stata concessa loro quell’autonomia necessaria per imparare a fare da soli. Anche qui i ragazzi possono prendere due strade differenti: ribellarsi oppure adeguarsi formando con il genitore un rapporto simbiotico caricandosi delle loro ansie e delle loro aspettative. Nel tempo questa iperprotezione può creare quello che la Olievirio Ferraris chiama “dittatore domestico”, cioè figli che abitutati a essere seguiti, serviti e riveriti pretendono che il genitore soddisfi ogni loro capriccio. 

STILE AUTOREVOLE: si tratta di genitori che richiedono rispetto e stabiliscono regole adatte all’età, alle caratteristiche dei figli e quindi rispettabili. Questi genitori non sono invadenti e hanno bene in mente i bisogni e i desideri dei loro figli che si educano all’autonomia e all’imparare dai propri errori. I bambini di genitori autorevoli risultano in media i più capaci: hanno più fiducia in se stessi, sono socialmente responsabili, contenti, capaci di auto controllarsi, capaci di stare in mezzo agli altri e cooperare.
Per concludere è utile dire che, come sempre quando si cerca di categorizzare, vengono estremizzate le caratteristiche. Alcuni genitori, quindi, potrebbero ritrovarsi in più categorie perché la realtà non è solo fatta di bianchi e di neri…ma c’è tanto colore in mezzo. 
E tu…che genitori ti senti di essere?
Quali sono le maggiori difficoltà che incontri quotidianamente in questa difficile missione genitoriale?


BIBLIOGRAFIA:
·          Baumrind D. “Current pattern of parental authority”
·          Montessori M. “La scoperta del bambino”
·          Oliverio Ferraris A. “La forza d’animo”
·          Oliverio Ferraris A.; Togni M. “Genitori e figli: una questione di stile”

sabato 13 aprile 2013

Come faccio a parlare della morte a mio figlio…che è così piccolo?

I bambini ci appaiono così spensierati, ma anche così fragili che non vorremmo mai rovinare la loro serenità parlando loro della morte.
Eppure, se ci pensiamo, è un evento naturale. Ogni essere vivente, per quanto semplice sia, ha un ciclo di vita: nasce, cresce, si riproduce, invecchia e muore. Inevitabilmente anche i bambini si scontrano con questo evento.
Bowlby aveva definito la morte come una perdita irreversibile, un’ inaccessibilità permanente e, in quanto tale, l’aveva considerata come un’estensione, un caso particolare ed estremo,  della Teoria della Separazione. L’evento della morte, infatti, provoca reazioni simili a quelle che emergono durante la separazione tra il bambino e la mamma: protesta, distacco e disperazione.
Come si può aiutare il bambino ad affrontare questo evento doloroso, ma naturale?
La prima cosa da fare è sicuramente lasciare al bambino la possibilità di accedere a questo evento e quindi non ingannarlo mai rispetto a quanto è accaduto. È importante fornire informazioni chiare, precise e concrete e rispondere ad ogni piccola domanda che il piccolo ci pone. È bene aiutarlo a capire che è lecito addolorarsi e che in questi momenti si può piangere ed essere tristi. Un altro elemento fondamentale da tenere sempre presente è che, come per noi adulti, anche per i bambini può essere d’aiuto dire addio alla persona che ci ha lasciato. Partecipare alla cerimonia funebre, ad esempio, permette al bambino di partecipare al dolore collettivo per la perdita e lo aiuta a dare un senso a quanto è accaduto.
A seconda dell’età, la morte è percepita dai bambini in modo diverso. Vediamone  brevemente le caratteristiche:
·         BAMBINI CON MENO DI 5 ANNI: a questa età la morte viene percepita come qualcosa di reversibile, per loro la persona morta è solo andata via, ma in futuro tornerà. A questa età c’è ancora la speranza del ritorno che è vissuta come rassicurante. Può essere che il bambino non manifesti  il suo dolore e ciò può sconvolgere i familiari che percepiscono questo come mancanza di sofferenza. In realtà dipende da una concezione della realtà ancora primitiva.
·         BAMBINI CON PIU’ DI 5 ANNI: dopo i 5 anni la morte viene percepita come irreversibile. I bambini quindi manifestano il loro dolore, ma non hanno la capacità di trovare da soli le risorse per affrontarlo e quindi hanno assolutamente bisogno di aiuto. Il loro pensiero operatorio concreto li porta a fare domande concrete appunto come “Chi dà da mangiare sottoterra?” oppure “Dove dorme?”. È importante mantenere sempre risposte che, nel rispetto delle credenze religiose, definiscano la differenza tra corpo e spirito. Può aiutare puntare l’attenzione sul ricordo della persona mancata.
·         BAMBINI DOPO I 8-9 ANNI: a questa età i bambini hanno pensieri simili a quelli dell’adulto e quindi devono confrontarsi con due compiti. Il primo è quello di accettare la realtà della perdita e il secondo è quello di affrontare il dolore. In questi casi si parla di dolore depressivo in quanto il soggetto è consapevole della perdita di uno stato precedente che, soggettivamente, era ritenuto buono.
Un processo importate e protettivo verso una perdita è quello della elaborazione del lutto. E’ un processo mentale lungo e articolato che può avere molte oscillazioni. Elaborare vuol dire arrivare ad una consapevolezza cognitiva ed emotiva circa la perdita subita.  Perché questo accada è importante lasciar spazio alle domande del bambino e rispondere ad esse realisticamente.
Spesso è più una difficoltà dell’adulto affrontare questo tema, ma come adulti abbiamo la responsabilità dei più piccoli e non possiamo sottrarci a questo faticoso e doloroso compito. 
Dott.ssa Laura Prada

martedì 9 aprile 2013

PERCORSO DI ACCOMPAGNAMENTO ALLA GRAVIDANZA E AL POST PARTUM (A TREVIGLIO)


Nei mesi di MAGGIO e GIUGNO 2013 verrà organizzato un ciclo di incontri, corsi e
laboratori dedicati alla preparazione al parto e al sostegno nel post-partum.
 
Il programma prevedere:
6 MAGGIO: INCONTRO GRATUITO DI PRESENTAZIONE DELL’INZIATIVA
 
INCONTRI TEMATICI in cui verranno affrontate le seguenti tematiche:
(costo 15 euro ad incontro)
 
 SONO INCINTA: il bambino immaginario e il bambino reale, i cambiamenti corporei e vissuti emotivi
 LA PRIMA ECOGRAFIA: lo sviluppo prenatale del bambino, i pensieri e i vissuti
 LA MIA RETE: come vive la gravidanza chi mi sta attorno e come gestire le relazioni familiari
 SI AVVICINA IL PARTO: come mi sto preparando ad accogliere il mio bambino, vissuti e paure
 DALLA DIADE ALLA TRIADE: il passaggio da coppia a genitori nelle mamme e nei papà
 COME AFFRONTARE LA GELOSIA: preparare un figlio all'arrivo di un fratellino
 L’ALLATTAMENTO: a rischista o secondo tempi predeterminati
 IL PIANTO DEL BAMBINO: come gestirlo
 LE COLICHE DEL BAMBINO: cosa sono e come gestirle
 L’ATTACCAMENTO: come si sviluppa la relazione mamma-bambino
 DEPRESSIONE POST PARTUM: cos’è e come prevenirla
 
CORSO di TRAINING AUTOGENO: Corso finalizzato ad apprendere le tecniche di rilassamento per
ridurre il dolore del parto. 6 incontri di gruppo. Costo 150 euro per l’intero corso.
 
MASSAGGIO INFANTILE: Corso finalizzato ad apprendere le tecniche di massaggio del bambino.
4 incontri di gruppo. Costo 80 euro per l’intero corso.
 
MASSAGGIO SHIATSU: Trattamenti mirati in gravidanza e nel post- gravidanza.
 
ATTIVITA’ LABORATORIALI:
(costo 20 euro a laboratorio)
 Il genogramma figurato come benvenuto al bambino
 Laboratorio non verbale
 
INOLTRE:
 Possibilità di colloquio di screening in gravidanza per la prevenzione della depressione postpartum
 Possibilità di colloquio psicologico nel postpartum
 
DOVE: presso lo Studio di Psicologia Il Racconto, via G. Matteotti 5, Treviglio (BG)
 
Possibilità di iscriversi alle singole attività.
Possibilità di ricevere uno sconto del 10% qualora si decida di partecipare a più di un’attività.
 
 
Per informazioni: tel 3297154064/ 3468877182 email: info@studioilracconto.it www.studioilracconto.it

lunedì 8 aprile 2013

EMDR...COME RISOLVERE ESPERIENZE TRAUMATICHE CHE CI FANNO VIVERE MALE

Cosa significa EMDR?
Significa desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari.
Cos'è l'EMDR?  
L’EMDR è un approccio complesso ma ben strutturato che può essere integrato nei programmi terapeutici aumentandone l’efficacia.Considera tutti gli aspetti di una esperienza stressante o traumatica, sia quelli cognitivi ed emotivi che quelli comportamentali e neurofisiologici. A volte, quando abbiamo subito un trauma, il solo parlarne non basta, in quanto la parola considera solo il livello cognitivo tralasciando gli altri.
In che cosa consiste l'approccio EMDR?
Questa metodologia utilizza i movimenti oculari o altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra, per ristabilire l’equilibrio eccitatorio/inibitorio, provocando così una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali. Si basa su un processo neurofisiologico naturale, legato all’elaborazione accelerata dell’informazione. 
Su cosa si basa l'EMDR?  
L'EMDR parte dal presupposto che il nostro cervello ha una capacità innata di elaborare le informazioni. In situazioni particolarmente difficili, però, capita che le informazioni non vengono elaborate totalmente, e quindi si crea un trauma. Un trauma porta a rivivere continuamente e in modo intrusivo l'evento spaventante anche quando questo non è più realmente vissuto. 
Molti pazienti si chiedono come è possibile che nonostante non si sia più in quella situazione pericolosa, si continuano a sentire delle sensazioni spiacevoli così forti. Questo accade perchè il "problema" non sta più nell'evento, ma nel RICORDO DELL'EVENTO. 
Tale ricordo crea stress e difficoltà estrema per la persona, proprio perchè l'evento è rimasto memorizzato in un modo non funzionale.
Come vede la patologia l'EMDR?
L’EMDR vede la patologia come informazione immagazzinata in modo non funzionale e si basa sull’ipotesi che c’è una componente fisiologica in ogni disturbo o disagio psicologico.  Quando avviene un evento ”traumatico” viene disturbato l’equilibrio eccitatorio/inibitorio  necessario per l’elaborazione dell’informazione. Si può affermare che questo provochi il ”congelamento” dell’informazione nella sua forma ansiogena originale, nello stesso modo in cui è stato vissuto. Questa informazione ”congelata” e racchiusa nelle reti neurali non può essere elaborata e quindi continua a provocare patologie come il disturbo da stress post traumatico (PTSD) e altri disturbi psicologici. 
Cosa si ottiene attraverso questo approccio?
L’EMDR è usato fondamentalmente per accedere, neutralizzare e portare a una risoluzione adattiva i ricordi di esperienze traumatiche che stanno alla base di disturbi psicologici attuali del paziente. Queste esperienze traumatiche possono consistere in: 
  • Piccoli-grandi traumi subiti nell'età dello sviluppo
  • Eventi stressanti nell'ambito delle esperienza comuni come lutto, malattia cronica, perdite finanziarie, conflitti coniugali, cambiamenti
  • Eventi stressanti al di fuori dell'esperienza umana consueta quali disastri naturali (terremoti, inondazioni) o disastri provocati dall'uomo (incidenti gravi, torture, violenze)
  
Sitografia: http://www.emdritalia.it/
 

venerdì 5 aprile 2013

MAMMA, PAPA'...IO A SCUOLA NON CI VADO!



Capita a volte di vedere genitori che non sanno più cosa fare per convincere i loro figli ad entrare a scuola! Se va bene si vedono bambini in lacrime, ma nei casi più complessi si possono vedere piccoli alunni che si attaccano alla gamba dei genitori, che urlano, che si incollano al cancello della scuola per non entrare. Da una parte i genitori imbarazzati e a volte arrabbiati, dall’altra parte le insegnanti impotenti. In mezzo loro: bambini che stanno soffrendo.
Se il disagio è circoscritto solo ed esclusivamente alla scuola si può parlare di “Fobia scolare”. Essa riguarda l’ansia eccessiva che coglie il soggetto proprio quando deve andare a scuola e durante le ore scolastiche,  compromettendo in modo significativo una regolare frequenza. I sintomi più frequenti che il bambino può manifestare possono essere agitazione, ansia, paura e possono riguardare anche l’area somatica lamentando mal di testa, mal di pancia, nausea, palpitazioni fino ad arrivare a disturbi del sonno, enuresi e risvegli notturni.
A volte però…c’è dell’altro.
La scuola è l’ambiente che il bambino frequenta per ben otto ore al giorno. Proviamo a pensare…se noi stessi avessimo delle preoccupazioni che riguardano un certa situazione che viviamo in casa, saremmo sereni a lasciare la casa stessa per ben otto ore di seguito?
La maggior parte di voi…direbbe di no.
Ecco cosa succede ad alcuni bambini che non riescono ad andare a scuola e a separarsi dai propri genitori anche per poter vivere altre esperienze.  Si parla in questo caso di “Ansia da separazione”.
Essa fa riferimento ad un’ansia inappropriata, rispetto al livello di sviluppo, che il bambino sperimenta quando viene separato dalla figura principale che si prende cura di lui. Spesso c’è una persistente ed eccessiva preoccupazione rispetto al fatto che un evento spiacevole e imprevisto possa capitare alle persone a cui lui è principalmente legato.  Si tratta di bambini che a volte hanno anche difficoltà a stare da soli, a dormire da soli e che si lamentano per molteplici sintomi fisici.
In questi casi la difficoltà ad andare a scuola, non sarebbe legata all’ambiente scolastico in sé, ma alla difficoltà di separarsi dalle figure di riferimento e dall’ambiente domestico. 
Cosa si può fare nell’immediato per aiutare un bambino che vive questa situazione?
È importante evitare di uscire di nascosto per la paura di scatenare il pianto del bambino, in quanto questa modalità aumenterebbe maggiormente il senso di insicurezza del piccolo. Fondamentale è trattare con serietà l’ansia del bambino in modo comprensivo e sereno evitando di minimizzare o prendere in giro con frasi come “adesso sei grande, basta capricci” o ancora “se non la smetti andrai in punizione!”. È più opportuno spiegare bene la situazione che il bambino deve affrontare nel qui ed ora rendendo il più prevedibile possibile la realtà.
Cosa si può fare per aiutare in modo significativo un bambino che vive questa situazione?
I sintomi che i bambini portano non devono essere sottovalutati. Se si esprimono così significa che il bambino non trova le parole per dirlo in altro modo. Con l’aiuto di uno psicologo è possibile capire le difficoltà che stanno alla base di questo disagio e lavorare per risolverlo alla radice. 
Dott.ssa Laura Prada

giovedì 4 aprile 2013

ECCO LE DATE DEL PROSSIMO CORSO DI TA A TREVIGLIO

Date del corso: "Imparare a rilassarsi e a gestire lo stress: Corso di Training Autogeno"

Partenza il 7 MAGGIO 2013.

Di seguito il calendario completo:
1
7 maggio
Martedi
h. 20.00
2
14 maggio
Martedi
h. 20.00
3
21 maggio
Martedi
h.20.00
4
28 maggio
Martedi
h.20.00
5
4 giugno
Martedi
h.20.00
6
11 giugno
Martedi
h.20.00



PER INFORMAZIONI: info@studioilracconto.it

mercoledì 3 aprile 2013

IMPARARE A RILASSARSI, A GESTIRE LO STRESS E LE EMOZIONI: CORSO DI TRAINING AUTOGENO A TREVIGLIO

A Maggio 2013 parte la nuova edizione del corso "Impariamo a rilassarci: corso di Training Autogeno".
Il corso tenuto dalle dott.sse Sara Gentilesca e Laura Prada, specializzate in tecniche di rilassamento, ha la finalità di fornire una conoscenza pratica del Training Autogeno. La tecnica consiste nell’apprendimento di una sequenza di esercizi di rilassamento che, una volta acquisiti, possono essere utilizzati dalla persona in modo autonomo.

Il Training Autogeno è una tecnica di rilassamento sviluppata dal medico tedesco J.H. Schultz e attualmente adoperata in svariati campi:
  • nella gestione delle emozioni, dello stress, dell’ansia 
  • nei disturbi del sonno 
  • nella dissuefazione dal fumo 
  • nel bruxismo 
  • nelle patologie con base psicosomatica (es. pressione alta, emicrania, asma, ulcera gastrica, eczema cutaneo, ecc.) 
  • nel miglioramento delle capacità di concentrazione e della memoria 
  • nella diminuzione della percezione del dolore 
  • nell’agevolazione del parto 
  • in ambito sportivo e in tutte quelle situazioni che richiedono il raggiungimento di un alto livello di concentrazione. 
DURATA: 6 incontri di gruppo della durata di un’ora e mezza ciascuno
minimo 3 partecipanti – massimo 10 partecipanti
Le iscrizioni verranno chiuse al raggiungimento del numero massimo previsto. 

DOVE: presso lo Studio di Psicologia Il Racconto, via G. Matteotti 5, Treviglio (BG)

COSTO: 150€ a persona (iva inclusa).
Possibilità di pagare i singoli incontri al costo di 30€ l’uno.
Prima dell’inizio del corso, diamo la possibilità di fissare un colloquio individuale gratuito, finalizzato ad approfondire le esigenze specifiche di ogni partecipante.


Per informazioni: tel. 329-71.54.064 – email: info@studioilracconto.it

martedì 2 aprile 2013

IL MIO BAMBINO PIANGE...



Qualcuno conosce qualche piccolo bambino che non piange mai?
E’ difficile, se non impossibile. Tutti i bambini piangono, alcuni più di altri, alcuni lo fanno raramente, alcuni lo fanno in continuazione.
Che significato ha il pianto di un bambino?
Alla nascita la prima cosa che avviene è proprio il pianto. In quella circostanza ha diverse funzioni:
·         Fa espandere i polmoni e li mette in funzione
·         Contribuisce a liberare le vie respiratorie dal liquido in modo da poter prendere l’ossigeno
·         È una reazione importante allo stress della nascita, visto che da quel momento deve imparare a vivere fuori dal corpo  della mamma.
Nei giorni, mesi e anni successivi il pianto del bambino continua. Piange perché ha fame, perché ha dolore, perché è disturbato da rumori o luci, perché si sente lontano delle figure per lui importanti, perché vuole essere perso in braccio, perché vuole essere rassicurato.
Il pianto è il modo per eccellenza che il bambino piccolo ha di comunicare, di mandare un messaggio.
È importante che un genitori si fermi ad osservare al fine di imparare a distinguere i diversi pianti del bambino, per poter comprendere.
Un noto pediatra Brazelton ha descritto gli stati comportamentali del neonato e ha individuato nello stato di veglia anche il pianto. Esso è quindi uno stato comportamentale.
Cosa deve fare il genitore? Se risponde al pianto sempre non c’è il rischio di viziare il bambino?
All’inizio del XX secolo era in voga la teoria che attraverso il pianto il bambino manipolasse il genitori e quindi era meglio lasciarlo piangere in modo da non allevare figli viziati, maleducati ed estremamente dipendenti dalla figura del genitore. Questi bambini, è vero, col tempo smettevano di piangere, ma lo facevano perché esausti o perché insoddisfatti dalla figura di attaccamento. Fortunatamente la validità di questo approccio è stata confutata. I bisogni dei neonati sono reali ed essi piangono per motivi veri!
Negli anni ’70 nasceva una nuova corrente di pensiero che ha portato le donne ad allattare al seno, furono inventati i marsupi e i pediatri incoraggiavano i genitori ad entrare in relazione profonda con i propri bambini. E qui all’opposto i genitori iniziarono a scattare al primo sospiro del bambino.
Oggi la prima cosa da fare è considerare il pianto come qualcosa di insito nella natura dei neonati. È una liberazione piangere e farlo tra le braccia di una persona amata, lo è ancora di più. Nell’ottica della Teoria dell’Attaccamento una madre/padre responsiva trasmette al figlio l’idea di valere, di essere degno d’amore e l’idea che attorno a lui ci sia un mondo “buono” su cui poter contare.
Perché ascoltare il pianto del proprio piccolo può portare all’esasperazione? Cosa fare?
Tutti i genitori hanno provato almeno una volta nella vita la fatica di ascoltare il pianto del loro piccolo che a volte li ha portati all’esasperazione.
Perché? Secondo Vimala McClure la ragione per cui è così difficile ascoltare il  pianto del bambino è che le nostre stesse infanzie possono essere state piene di frustrazioni o bisogni inascoltati. A volte quando sentiamo il nostro bambino piangere, invece che ascoltare realmente quello che ci sta comunicando, sovrapponiamo il nostro bambino interiore e questo ci porta ad un unico desiderio: che il bambino smetta di piangere. Calmiamo i nostri figli nello stesso modo in cui noi siamo stati calmati.
Se ci rendiamo conto che il nostro livello di sopportazione è ad altissimi livelli, se possibile è bene chiedere al nostro partner di tenere il bambino per dieci minuti in modo da potersi calmare in un luogo tranquillo scaricando l’ansia con la respirazione.
Se purtroppo non si hanno aiuti vicini è bene rivolgersi a un Consultorio Familiare vicino a casa o a uno psicologo privato per poter essere supportato in questi normali, ma difficili momenti.
Dott.ssa Laura Prada